Ma il dibattito sul differente trattamento divide il mondo dell'associazionismo e organizzazioni umanitarie

 Sono quasi 77mila i profughi in fuga dall’Ucraina che il nostro Paese ha accolto dall’inizio del conflitto. Per la maggior parte sono donne e bambini. Molti di loro sono ospitati nei centri di accoglienza, ma c’è chi ha trovato accoglienza in casa degli italiani. “C’è stata una risposta solidale straordinaria”, ha sottolineato il ministro della Salute, Roberto Speranza, proprio nel giorno in cui Papa Francesco ha voluto rilanciare con forza “lo spirito della fraternità umana” e la “cultura della tenerezza sociale” contro “la retorica dell’inclusione” che spesso rimane “formula di rito di ogni discorso politicamente corretto”.

 L’Italia, dunque, accoglie volentieri. Ma fa discriminazioni in base al Paese di provenienza? “L’accoglienza – che è sacrosanta – che l’Italia sta riservando ai profughi che arrivano dall’Ucraina – è molto diversa da quella mostrata nei confronti di coloro che arrivano dall’Africa e dall’Oriente”. Questo perché “fondamentalmente restiamo razzisti”, dichiara il sociologo Domenico De Masi. “Di fatto scegliamo badanti dell’Est per curare i nostri anziani: le accettiamo meglio perché sono europee, bianche, più simili a noi. Si fa distinzione tra bianchi e neri come ai tempi del nazismo la si faceva tra ebrei e ariani”, conclude.

 Un’opinione che, però, non trova d’accordo la comunità africana. “Per la nostra esperienza non possiamo dire che gli italiani siano razzisti verso noi africani. Se lo sono, non lo avvertiamo. Anzi, credo che abbiano fatto tanto per noi”, conferma a LaPresse Abdul Hassan, responsabile della sede di Milano dell’Ucai, l’Unione delle Comunità Africane d’Italia. “Accogliere chi scappa dalla guerra è giusto, si tratta di una emergenza straordinaria”. E aggiunge: “L’esodo dei profughi provenienti dall’Africa, invece, è ormai un dramma di tutti i giorni”.

 “Gli italiani non sono razzisti, chi dice il contrario sbaglia. Oggi con i profughi ucraini si stanno comportando come in passato, mostrandosi sempre disponibili ad aiutare chi ha bisogno”, ribadisce anche Kamel E. Belaitouche, presidente di Ainai, l’associazione degli immigrati nordafricani in Italia. Che, però, fa un preciso distinguo: se “nell’ospitalità l’Italia è ben organizzata” lo stesso “non si può dire quando si parla di gestire persone che non sono più profughi a ridosso dell’emergenza, ma cittadini che vogliono integrarsi. Solo per avere i documenti serve tantissimo tempo”.

 Una situazione con cui fare i conti al termine del conflitto: in quanti resteranno in Italia e avranno bisogno di integrarsi nel tessuto sociale, tra scuola e lavoro? “Dopo l’emergenza la maggior parte dei profughi rientrerà in Ucraina. Ma al termine del conflitto ci saranno città fantasma e molti non sapranno dove andare, non avranno da chi tornare”, sottolinea padre Teodosio Hren, vicario generale dell’esarcato apostolico per i fedeli cattolici ucraini di rito bizantino residenti in Italia, originario di Leopoli.

 “Sono convinto che l’Italia sarà in grado di gestire la situazione con piani adeguati di inclusione”, spiega Padre Hren dicendosi ottimista: “Il governo farà i passi giusti per permettere loro di integrarsi in Italia. Tanto è stato fatto già nella scuola e nel lavoro, come le annunciate assunzioni di medici e infermieri ucraini negli ospedali italiani”. Da parte loro, “gli ucraini non avranno problemi” a integrarsi: “Entrambi i Paesi – assicura – condividono gli stessi valori, come l’amore per la libertà e la democrazia”.

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