La fotografia dello stato di salute delle medie imprese nazionali nel XXI Rapporto realizzato da Unioncamere

 Le medie imprese italiane continuano a correre: dopo il rimbalzo del 2021 (+19%), nel 2022 le prospettive di crescita del fatturato è del +6,3% e si riduce il gap generazionale, con quasi la metà (il 47,2%) che afferma di aver risolto il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Passi in avanti significativi che però, per il 41% di loro, non sarà rafforzato dal Pnrr, che non si è attivata ancora – ne ha intenzione di farlo – per sfruttare le risorse offerte dal piano. A scattare la fotografia dello stato di salute delle medie imprese nazionali è il XXI Rapporto realizzato da Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne, presentato a Roma.

 Confrontando l’andamento delle grandi imprese manifatturiere italiane, dall’analisi emerge che le medie hanno registrato migliori performance sotto molti punti di vista: hanno ottenuto una crescita del fatturato più che doppia (+108,8% vs +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% vs +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% vs +57%). Tutti successi – specificano Unioncamere, Mediobanca e Tagliacarne – ottenuti con un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8% contro -12,5%), che ha consentito l’affermazione anche a livello internazionale: la loro produttività è infatti superiore del 21,5% a quella delle omologhe tedesche e francesi, un risultato che, secondo il report, è fuori dall’ordinario se si pensa che la nostra manifattura nella sua interezza accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto agli stessi Paesi. Non è un caso che abbiano attratto l’attenzione degli stranieri: oggi ne avremmo circa 210 in più se queste non fossero passate nell’ultimo decennio sotto il controllo di azionisti esteri, un quarto dei quali proprio tedeschi e francesi. Un aspetto peculiare delle medie imprese riguarda poi il fatto che ricchezza e occupazione sono prodotte prevalentemente in Italia. L’88,2% non ha una sede produttiva all’estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell’output. Il tema del re-shoring appare quindi di poca rilevanza per queste aziende che, invece, partecipano attivamente alle catene globali del valore: l’88,8% si avvale di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all’estero è pari al 43,2% del fatturato.

 Ma attenzione alla staffetta generazionale che – avverte lo studio – rischia di rallentare la corsa della media impresa: per 1 su 4 il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo. Per il 26,2% il tema non è nemmeno in agenda perché gli eredi sono troppo giovani, ma il restante 9,2% è in oggettiva difficoltà dovendo fronteggiare la mancanza di eredi, la loro eccessiva numerosità o i dissidi tra soci. Non c’è bisogno di proiettarsi troppo in avanti per vedere già gli effetti della frenata: le medie imprese con problemi di passaggio generazionale investiranno nel triennio 2022-24 meno nella formazione manageriale per innovare i modelli di business (38% vs 50% nel caso di quelle senza problemi), meno sull’innovazione di processo e organizzativa (64% vs 71%) e nell’innovazione di prodotto e di marketing (47% vs 61%). Soprattutto, è da tenere d’occhio il dato sul Pnrr. Al 41% di imprese che non ne sfrutteranno i benefici, corrisponde un 59% di imprese che invece puntano sul piano. Influiscono sulla decisione due fattori. Uno interno, relativo al capitale umano: ben il 72% delle medie imprese che investe nella formazione manageriale per innovare i propri modelli di business si è già mosso sui progetti del Pnrr (o ha in programma di farlo), percentuale che scende invece al 46% per quelle che non investono nelle competenze manageriali. Uno esterno, basato sulle relazioni con Istituzioni e Università: il 74% delle medie imprese che ha relazioni sia con le Istituzioni che con le Università si è già attivato sui progetti del Pnrr (o ha in programma di farlo), contro poco più del 60% nei casi in cui i rapporti siano intrattenuti solo con Istituzioni o solo con Università e il 52% nel caso in cui l’impresa non collabori con nessuno dei due soggetti.

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